Pubblicata la sentenza della Corte Costituzionale n. 222/2018 con cui viene dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui dispone: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa», anziché: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni»
Lo scorso 21 giugno,le Sezioni Unite penali hanno nuovamente affrontato il tema dell’applicazione del cumulo giuridico, nel caso in cui i reati in continuazione siano puniti con pene eterogenee (pena detentiva per la violazione più grave; pena pecuniaria per quella meno grave).
La sezione quarta, il 20 marzo aveva riproposto le seguenti questioni:
1.“Se sia ammissibile la continuazione tra reati puniti con pene eterogenee”;
2.“Se, in ossequio del favor rei, ferma la configurabilità della continuazione tra reati puniti con pene eterogenee, ove il reato più grave sia punito con la pena detentiva e quello satellite esclusivamente con la pena pecuniaria, l’aumento di pena per quest’ultimo debba conservare il genere di pena pecuniaria”.
Nell’ordinanza di remissione (rel.Picardi), si dissentiva dal principio enunciato dalla sentenza delle Sezioni Unite n.4910 del 27/03/1992 (e poi confermato dalle Sezioni Unite, sentenze n.15 del 26/11/1997, Rv.209487 e n.25939 del 28/02/2013, non massimata sul punto) “secondo cui una volta ritenuta la continuazione tra più reati il trattamento sanzionatori originariamente previsto per i reati «satellite» non esplica più alcuna efficacia, dovendosi solo aumentare la pena prevista per la violazione più grave, senza che rilevi la «qualità» della pena prevista per i reati «satellite”.
Tale lettura – secondo la sezione remittente -sarebbe stata in contrasto la ratio di favore della continuazione, atteso che la pena prevista per il reato satellite verrebbe sempre così ad uniformarsi in genere e specie a quella prevista per il reato più grave (mentre l’art. 81 c.p. sembrerebbe riferirsi al solo aumento quantitativo della pena base, non ad una sua “trasformazione qualitativa”).
L’ordinanza elencava poi le numerose pronunce (in materia d’indulto; di misure cautelari; di benefici penitenziari; di maturazione del termine per la proposizione della querela; di riconoscimento dell’attenuante del risarcimento del danno, etc.) che proprio “al fine di preservare la ratio del favor rei, privilegiano una ricostruzione pluralistica del reato continuato”, ponendo altresì l’accento alla considerazione “pluralistica” del reato continuato fatta propria dal legislatore del 2005 in materia di prescrizione.
Infine l’ordinanza rilevava che “l’art. 533, secondo comma, cod. proc. pen., nel dividere, con riferimento al reato continuato, il processo di quantificazione della pena in due fasi, mantenendo distinti i singoli reati […] consentirebbe la determinazione della pena in termini di addizione della pena eterogenea più favorevole, senza alcuna necessità di trasformare quella pecuniaria in detentiva secondo lo schema della pena unitaria progressiva per moltiplicazione”
Le Sezioni Unite sembrano aver confermato il precedente orientamento,ribadendo che “l’aumento di pena per il reato satellite va comunque effettuato secondo il criterio della pena unitaria progressiva per moltiplicazione, rispettando tuttavia, per il principio di legalità della pena e del favor rei, il genere della pena previsto per il reato satellite, nel senso che, l’aumento della pena detentiva del reato più grave andrà ragguagliato ai sensi dell’art. 135 cod. pen.”.
Il d.lgs. n.63/2018 (che entrerà in vigore il 22 giugno 2018) modifica – tra l’altro – gli artt. 388 e 623 c.p.
Nell’art.388 c.p. vengono introdotte due ulteriori ipotesi di «mancata esecuzione dolosa dei provvedimenti del giudice», ossia:
1) l’elusione dell’ «esecuzione di un provvedimento adottato dal giudice che prescriva misure inibitorie o correttive a tutela dei diritti di proprietà industriale»;
2) la violazione dell’obbligo alla «riservatezza» derivante da «espresso provvedimento adottato dal giudice nei procedimenti che riguardano i diritti di proprietà industriale».
L’art.623 c.p. è così sostituito:
«art.623 (Rilevazioni di segreti scientifici o commerciali)
Chiunque, venuto a cognizione per ragioni del suo stato o ufficio, o della sua professione o arte, di segreti commerciali o di notizie destinate a rimanere segrete, sopra scoperte o invenzioni scientifiche, li rivela o li impiega a proprio o altrui profitto, è’ punito con la reclusione fino a due anni.
La stessa pena si applica a chiunque, avendo acquisito in modo abusivo segreti commerciali, li rivela o li impiega a proprio o altrui profitto.
Se il fatto relativo ai segreti commerciali è commesso tramite qualsiasi strumento informatico la pena è aumentata.
Il colpevole è punito a querela della persona offesa».
L’art.9 d.lgs.63/2018 precisa – comma 3 – che «ai fini dell’art.623 del codice penale, nel testo riformulato dal presente articolo, le notizie destinate a rimanere segrete sopra applicazioni industriali, di cui al previgente del medesimo art.623, costituiscono segreti commerciali».
Secondo l’informazione provvisoria pubblicata sul sito della Cassazione, le Sezioni Unite (c.c. 31 maggio 2018, rel. Petruzzellis) hanno affermato che la mancata proposizione della richiesta di riesame avverso il provvedimento applicativo di una misura cautelare reale non preclude la proposizione dell’appello fondato non su elementi nuovi,ma su argomenti tendenti a dimostrare, sulla base di elementi già esistenti, la mancanza delle condizioni di applicabilità della misura.
La questione era stata sollevata dalla sezione terza della Cassazione con ordinanza n. 11935 del 13 marzo 2018 e già rilevata nella relazione n. 49/17 del 15 giugno 2017 dell’Ufficio del Massimario.
Nell’ordinanza si riscontrava in particolare che l’orientamento già espresso dalle Sezioni Unite Romagnoli (sent. n. 29952 del 24 maggio 2004), secondo cui l’interessato può legittimamente richiedere, anziché il riesame del sequestro preventivo, la successiva revoca della misura ai sensi dell’art. 321, co. 3 anche contestando l’originaria insussistenza del fumus.
A tale orientamento si erano, invece, contrapposte delle pronunce secondo cui, in tale sede, possano essere opposte soltanto circostanze sopravvenute e non censure attinenti il momento genetico (in primis l’astratta configurabilità del reato). Di conseguenza l’appello ex art. 322 bis c.p.p. avverso il rigetto dell’istanza di revoca del GIP doveva considerarsi, secondo questo orientamento, inammissibile.
Sono state depositate in data 1 giugno le motivazioni della sentenza n. 24782/2018 delle Sezioni Unite (Pres. Carcano, est. Andreazza), in tema di omessi versamenti di ritenute certificate ex art. 10 bis del D.lgs. n. 74/2000.
La questione riguardava la portata, innovativa o meramente interpretativa, dell’interpolazione attuata con D.lgs. n. 158/2015 (c.d. riforma dei reati tributari). In particolare l’ordinanza di remissione si domandava se il sintagma “dovute sulla base della stessa dichiarazione” dovesse essere considerato (i) estensivo dell’area di prensione punitiva della fattispecie penale ovvero (i) mera chiarificazione interpretativa, in ordine alla prova dell’effettivo rilascio, da parte del sostituto d’imposta, della certificazione unica.
Nel primo senso, evidentemente, opererebbe il principio d’irretorattività di cui all’art. 2 c.p. e 25, co. 2 Cost.; nel secondo senso, invece, la novella troverebbe applicazione anche per i fatti commessi anteriormente.
Le Sezioni Unite, richiamando la giurisprudenza costituzionale, hanno ritenuto che la riforma non possa essere considerata meramente interpretativa, poiché introduce casi che non potevano in alcun modo essere ascritti al previgente testo, che recitava letteralmente “risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti”.
Le Sezioni Unite, inoltre, chiariscono che non è possibile ricavare alcuna massima di esperienza che consenta di inferire dalla dichiarazione del sostituto, oltre alla prova del pagamento degli emolumenti e dell’effettuazione delle ritenute, anche quella dell’effettivo rilascio dei CUD, considerato presupposto della condotta omissiva consistente nel mancato versamento dei contribuiti previdenziali e assistenziali, oltre che elemento specializzande della norma penale rispetto all’illecito amministrativo.
Le Sezioni Unite, infine, lasciano aperta la rilevantissima questione della legittimità costituzionale della riforma sul punto per eccesso di delega, non risolta in quanto non rilevante nella vicenda in esame. Come precisa la Corte “l’art. 8 della l. 11 marzo 2014, n. 23 (di delega di riforma del sistema tributario), con riferimento alle fattispecie meno gravi (cui viene ricondotta l’omissione in questione), prevedeva solo ed esclusivamente di ridurre le sanzioni o di applicare sanzioni amministrative e non autorizzava il Governo in alcun modo ad estendere la portata dell’incriminazione attraverso la previsione di una condotta in precedenza penalmente irrilevante”
È stata depositata la motivazione della sentenza n. 115/2018 della Corte Costituzionale, che segue il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE della stessa Consulta con ord. n. 24/2017.
La Corte chiarisce che “Indipendentemente dalla collocazione dei fatti, prima o dopo l’8 settembre 2015, il giudice comune non può applicare loro la ‘regola Taricco’, perché essa è in contrasto con il principio di determinatezza in materia penale”
Le ragioni sono così esplicitate nei passaggi principali della sentenza:
“appare evidente il deficit di determinatezza che caratterizza, sia l’art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE (per la parte da cui si evince la “regola Taricco”), sia la “regola Taricco” in sé. […] quand’anche la ‘regola Taricco’ potesse assumere, grazie al progressivo affinamento della giurisprudenza europea e nazionale, un contorno meno sfocato, ciò non varrebbe a ‘colmare l’eventuale originaria carenza di precisione del precetto penale’ […] anche se il principio di assimilazione non desse luogo sostanzialmente a un procedimento analogico in malam partem e potesse permettere al giudice penale di compiere un’attività priva di inaccettabili margini di indeterminatezza, essa, comunque sia, non troverebbe una base legale sufficientemente determinata nell’art. 325 TFUE, dal quale una persona non avrebbe potuto, né oggi potrebbe, desumere autonomamente i contorni della ‘regola Taricco’”
Entrerà in vigore il prossimo 9 maggio il D.lgs. 10 aprile 2018 n. 36 che ha esteso la procedibilità a querela a taluni reati contro la persona previsti nel codice penale.
Tra le fattispecie interessate, si segnalano quella di truffa e appropriazione indebita, per le quali il regime di procedibilità viene rimodulato.
Per la truffa la procedibilità d’ufficio rimane solo nelle ipotesi di cui al comma 2 dell’art. 640 c.p. e nelle ipotesi aggravate dalla circostanza di cui all’art. 61, n. 7 c.p. (danno patrimoniale di rilevante gravità), essendo invece soppresso il generale riferimento a “un’altra circostanza aggravante”.
Per l’appropriazione indebita, invece, è stato abrogato il terzo comma dell’art.646 c.p. che prevedeva la perseguibilità d’ufficio nel caso il reato fosse stato commesso con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione di opera, di coabitazione, o di ospitalità.
Tra i reati interessati anche quelli di minaccia ex art. 612 c.p.; di violazione di domicilio commessa dal pubblico ufficiale ex art. 615 c.p.,; nonché diversi reati posti a tutela dell’inviolabilità della corrispondenza.
L’art. 12 del Decreto prevede una norma transitoria per i reati commessi anteriormente all’entrata in vigore. Per i reati di cui la persona offesa abbia già avuto conoscenza il termine per la presentazione della querela decorrerà dal 9 maggio p.v.; per i procedimenti pendenti il PM o il Giudice dovranno provvedere a informare la persona offesa e il termine decorrerà dalla data di ricezione di tale comunicazione.
Cass. pen., sez. V, n. 17163 del 17 aprile 2018
Costituisce bancarotta per distrazione l’operazione di scissione della società in crisi, con la quale siano illecitamente scorporate le attività dalle passività, assegnando le prime ad una new company e abbandonando la società scissa alla dichiarazione di insolvenza. Pur ribadendo che l’attribuzione di rilevanti risorse alla società beneficiaria non costituisce di per sé distrazione, la Cassazione ritiene che possa assumerne i caratteri laddove “avuto riguardo alla situazione di dissesto dell’originaria società al momento della scissione, si riveli avulsa dalle finalità dell’impresa fallita, volutamente depauperativa del patrimonio aziendale e pregiudizievole per i creditori nella prospettiva della procedura concorsuale”. La possibilità dei creditori della società scissa di rivalersi sul patrimonio della beneficiaria (art.2506 c.c.) non è infatti sufficiente ad escludere il danno o il pericolo per i creditori, in quanto “se è vero che ad essi è riconosciuto il diritto di rivalersi sui beni conferiti alle società beneficiarie … è vero altresì che un pregiudizio per gli stessi è comunque ravvisabile nella necessità di ricercare detti beni e che, soprattutto, all’esito di tale ricerca i creditori potranno trovarsi nella condizione di dover concorrere con i portatori di crediti nel frattempo maturatisi nei confronti delle società beneficiarie”
Lo scorso 10 aprile la Corte Costituzionale si è pronunciata sul presunto obbligo di disapplicazione della disciplina interna in materia di prescrizione, per contrasto con l’art. 325 TFUE, nel caso di reati di frode fiscale influenti sugli interessi finanziari dell’Unione.
La sentenza, di cui si attendono le motivazioni, ha ritenuto che tale obbligo, enunciato per la prima volta dalla Corte di Giustizia l’8 settembre 2015 nel caso “Taricco”, non sussista e quindi ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale proposte in via incidentale.
Come spiegato nel comunicato stampa, apparso sul sito della Consulta, “questo presupposto è caduto con la sentenza ‘Taricco bis’ del 5 dicembre 2017, in base alla quale l’art. 325 TFUE … non è applicabile né ai fatti anteriori all’8 settembre 2015 (e dunque nei giudizi a quibus) né quando il giudice nazionale ravvisi un contrasto con il principio di legalità in materia penale”.
Non è ancora chiaro, tuttavia, se e in quale misura il principio valga per i fatti successivi all’8 settembre 2015, diversi, dunque, da quelli che hanno condotto alle ordinanze di rimessione della Corte di Appello di Milano e della Corte di Cassazione.
Il 20 marzo 2018 si è tenuta a Milano un’interessante iniziativa, organizzato dall’INDICAM sulle nuove sfide della tutela dell’IP in azienda.
L’Avv.Antonio Bana e la Dr.ssa Stefania Chiaruttini hanno animato il dibattito sul modello organizzativo ex.d.lgs.231/2001 come nuova strategia di responsabilità aziendale.